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Verona: per la classifica e per l'onore. Ascoli, dal sogno play-off all'incubo play-out il passo è breve: viaggio nell'involuzione bianconera. Pisa, ovvero quando il gol diventa una chimera: con l'Avellino è l'ultima spiaggia

di Marco Lombardi

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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Il ricordo dell’umiliante debacle dell’andata è ancora vivo: il 5-1 incassato al “Tombolato” dal Cittadella rappresenta per il Verona una macchia indelebile. Ora più che mai, c’è bisogno di un sussulto d’orgoglio per riemergere dal limbo che ha avviluppato gli scaligeri. Il successo di Trapani - eclatante nelle proporzioni,  meno nei contenuti -, si è rivelato illusorio: chiamato a confermarsi per dare continuità ai risultati e non perdere terreno dalla vetta, l’Hellas ha tradito le attese, dapprima scivolando in casa contro lo Spezia, al termine di una prestazione scialba ed evanescente, quindi acciuffando per il rotto della cuffia un punto, che sa tanto di “brodino”, a Novara. Preoccupano l’involuzione del gioco, con una manovra sovente imbottigliata per vie centrali, la perdita di smalto e brillantezza, ma anche e soprattutto la “patologica” Pazzini-dipendenza. E poi equivoci irrisolti e paradossi: giocatori sacrificati sull’altare del modulo tattico, la pessima gestione di un Ganz relegato al ruolo di mero comprimario e mai provato in tandem con il capocannoniere della B… Sul banco degli imputati Fabio Pecchia. Accusato di “integralismo”, di fossilizzarsi su un 4-3-3 monocorde, prevedibile, non congeniale alle caratteristiche degli interpreti a disposizione, il tecnico di Formia ha raccolto le critiche dei censori più ostinati e sperimentato soluzioni alternative: il risultato è che a 7 giornate dal termine della stagione regolare il Verona non ha ancora acquisito una propria identità. La squadra alterna sprazzi di bel calcio a cali di tensione incomprensibili ed intollerabili per chi è tenuto recitare un ruolo di primissimo piano in campionato. In questo dibattito si inserisce anche il duro comunicato diffuso dalla Curva Sud, cuore pulsante del tifo gialloblù, che, tra le altre cose, ha stigmatizzato l’immobilismo della società in sede di mercato di riparazione. La presunzione di poter “passeggiare” in serie B si è tramutata ora nel timore di compromettere una stagione nata sotto i migliori auspici.     

 

Un ottimo girone di andata, chiuso a un tiro di schioppo dalla zona play-off, è bastato per indurre i più inguaribili romantici a millantare le qualità dell’Ascoli lanciandosi in arditi voli pindarici. La società bianconera non è caduta in questo errore ed ha condotto un mercato di tipo conservativo, incoraggiata a proseguire orgogliosamente nel percorso di valorizzazione dei tanti giovani emergenti presenti nella rosa. Senza cullare velleità di altro tipo. L’obiettivo era e resta il mantenimento della categoria. La musica, però, è radicalmente cambiata nel girone di ritorno: 11 i punti fatturati dall’Ascoli in 14 giornate, solo 1 nelle ultime 4. Un ruolino di marcia da retrocessione, accompagnato dai primi malumori e vagiti di contestazione all’indirizzo dell’operato di Aglietti. L’involuzione sul piano del gioco - con una costruzione della manovra spesso di facile lettura, lenta e farraginosa, che risente dell’assenza di un uomo d’ordine a centrocampo - è sotto gli occhi di tutti e non può essere mitigata dall’insperato, quanto meritato, pareggio ottenuto in zona Cesarini contro il Frosinone. I numerosi infortuni occorsi a giocatori cardine della squadra, poi, sono un dato di fatto, insuscettibile però di divenire un alibi. Che non reggerebbe, perché l’Ascoli ha dimostrato di saper sopperire alle assenze dei propri “senatori” (Cacia, Giorgi…). Ciò che inquieta, piuttosto, è l’aver dilapidato quel cospicuo gruzzolo di punti di vantaggio dalla zona retrocessione che, ove consolidato, avrebbe consentito ai bianconeri di gestire senza eccessivi patemi il rush finale di stagione. In questo contesto s’inserisce la delicata trasferta di Perugia: una sconfitta potrebbe minare il morale della squadra, rimettere in discussione tutto e far riaffiorare alla memoria di Aglietti gli angoscianti fantasmi del passato: quell’amara retrocessione alla guida dell’Entella - poi ripescata - consumatasi nel play-out contro il Modena.  

 

La pesante sconfitta patita nello scontro salvezza con il Cesena ci ha restituito un Pisa impalpabile, parso sulle gambe ed in debito d’ossigeno: innegabile il calo di condizione di diversi giocatori che hanno stoicamente tirato la carretta da inizio stagione, cantando e portando la croce… Una squadra in affanno, dunque, ed in grande difficoltà. Emblematica l’immagine di Gattuso che, nel finale di gara, sconsolato, si gira verso il proprio secondo per confessargli tutto il proprio smarrimento e la propria impotenza. Il problema numero uno del Pisa, però, resta la conclamata, drammatica, sterilità offensiva, cui non si è adeguatamente posto rimedio in sede di mercato invernale: troppo fumoso ed anarchico Manaj, mentre Masucci non è mai stato un “cecchino” tant'è vero che in carriera non è mai andato in doppia cifra. Manca il bomber, il finalizzatore in grado di capitalizzare il volume di gioco prodotto. Questo il limite più evidente della squadra nerazzurra. Che a conti fatti rischia di costare caro. Perché nel giuoco del calcio per vincere bisogna buttarla dentro, altrimenti la salvezza diventa un miraggio. Con buona pace di una difesa di ferro, la meno perforata del campionato. Ed allora, senza retorica, quella di oggi contro l’Avellino rappresenta per i toscani l’ultima spiaggia: solo una vittoria può riaccendere un barlume di speranza. Fallire il secondo spareggio salvezza consecutivo avrebbe il sapore amaro della resa.

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